Recensione a "Il sangue non è acqua" (Pequod, 2006) Cominciamo dalla fine, perché dalla terza di copertina vien fuori che Paolo Agaraff sarebbe nato tra il 1966 ed il 1969 e se poi si va a cercare chiarimenti sul sito (www.agaraff.com) si legge anche che è uno e trino. Dunque l'inafferrabile identita di Paolo e a scelta fra il trovatello per il maligno, l'entità trascendente per l'adepto o il nome collettivo per il lettore che si appresta a sfogliare un libro scritto a sei mani. Fate voi. Ma c'è un'altra ragione per cominciare dal fondo in quanto e soprattutto nelle ultime pagine che si ha la possibilità di riannodare il garbuglio di fili di una vicenda a tratti spiazzante e surreale, in gran parte marcata da un prete che nel libro riveste in molte pagine i panni del notaio incaricato di convocare in una sperduta isola della Sardegna i cugini Farricorto destinatari di una misteriosa eredita. È difficile interpretare correttamente ciò che un autore pensa - in questo caso poi e addirittura trino - ma è lecito ritenere che notaio-prete o prete- notaio non sia una contraddizione casuale, ma la volonta di sottolineare l'equivoca intercambiabilità di queste due figure istituzionali. Il notaio è il funzionario attraverso cui lo Stato minuziosamente ed invasivamente certifica la privacy del cittadino, cosi come il prete, strumento della religione, esercita il controllo sistematico e puntiglioso sui comportamenti dei fedeli con quel "quante volte figliolola?" d'infantile memoria. E ancora dall'infanzia riaffiora una frase inquietante: “Dai segnati, guardati!”. Era il nonno materno a ricordarmelo. Uomo tutto d'un pezzo, d'origine contadina, Cavaliere delllordine di Vittorio Veneto, buono come il pane e innamorato di noi nipoti, ma cresciuto nei pregiudizi della piu bigotta tradizione cattolica, la stessa che parla per bocca del prete-notaio: “Dice il Levitico: Nessun uomo della tua stirpe, che abbia qualche deformità, potrà accostarsi ad offrire il pane del suo Dio, ne il cieco, né lo zoppo, [. . .]. Dio aborrisce la mostruosità. E aborrisce gli adoratori di falsi idoli. Per questo la vostra razza deve essere estirpata”. Diversità come marchio d'infamia, diversità come matrice del rifiuto, diversità come origine dell'odio. Dell'odio per il diverso, come bene spiega un altro personaggio, il capitano Marsh profeta di un nuovo ciclo dell'umanità: “L'odio. È stata questa la nostra carta vincente, l'odio cieco e irrazionale per tutto ciò che è diverso da noi, per tutto ciò che non arriviamo a comprendere, un odio scatenato dalla paura, ma e stato anche il nostro limite: e un odio talmente forte che a volte può rivolgersi contro noi stessi come uno squalo che si divora le interiora. Una forza che ci preserva ma ci impedisce di evolverci”. Per enucleare questo tema bisogna impegnarsi a seguire due storie in parallelo ed una sequela di personaggi appartenenti in maniera più o meno diretta alla stessa famiglia, il tutto con uno stile narrativo che si dipana fra un horror talora parecchio splatter ed un noir che rimanda all'atmosfera claustrofobica dei dieci piccoli indiani. C’è da sperare che il "trino Paolo" si sia divertito a costruire le allucinate vicende dei malcapitati cugini e del bestiario delle figure di complemento riunite nell'incubo collettivo della villa sull'isola, perché il lettore rimane spesso incerto e confuso nel trovare un orientamento plausibile fra gli accadimenti ed il proposito, almeno cosi pare di capire, di affrontare il tema dell'incapacità dei fondamentalismi religiosi a confrontarsi con la diversità. Insomma, intrigante, attuale, ma un po' faticoso. Marco Accorti |